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18/09/2017

Olio di palma: facciamo chiarezza

Da giorni ormai varie testate italiane riportano di una relazione diretta tra aumento dei prezzi del burro e calo delle domanda di olio di palma. E nel dare questa notizia non si è persa l’occasione di gettare nuovamente discredito sull’olio di palma descrivendolo come prodotto da escludere per motivi legali alla tutele della salute dei consumatori, che andrebbe quindi sostituito con il burro. Ma sarà davvero così?

“Noi non siamo convinti che questi due eventi siano del tutto correlati, in quanto l’andamento dei prezzi del burro segue logiche di mercato diverse, ma non ci interessa entrare nel merito e alimentare le polemiche” – spiega il Presidente dell’Unione Italiana Olio di Palma Sostenibile, Giuseppe Allocca. “Quello che ci preme è invece chiarire che la letteratura scientifica concorda nell’affermare che l’olio di palma non comporta alcun rischi all’interno di una dieta bilanciata. Detto questo, è bene che i consumatori sappiano che se in un prodotto il burro prende il posto dell’olio di palma – continua Allocca – dal punto di vista nutrizionale non avremo necessariamente un beneficio, dal momento che il burro contiene il 49% di grassi saturi contro il 47% dell’olio di palma[1], quest’ultimo, inoltre è anche privo di colesterolo”.

Non a caso, che chi ha scelto di eliminare l’olio di palma riformulando i prodotti senza questo ingrediente, nella maggior parte dei casi, non ha utilizzato il burro, come si può facilmente osservare leggendo le etichette dei prodotti in vendita nei supermercati e come evidenzia uno studio di Campagne Liberali dal quale si evince che gli oli principalmente utilizzati per le nuove ricette dei prodotti sono di origine vegetale (principalmente girasole, colza, karité, cocco).

E in termini di sostenibilità ambientale? Anche in questo caso non è chiaro quali sarebbero i vantaggi di una sostituzione dell’olio di palma con il burro. Sono tanti gli studi comparativi che hanno dimostrato che l’olio di palma necessita di meno acqua, pesticidi e fertilizzanti, oltre ad avere un’altissima resa per ettaro. A questi, si aggiunge il più recente, Climate Focus dal quale emerge che la filiera dell’olio di palma è quella che più si è impegnata nell’adottare criteri di sostenibilità e che sono altre commodities – come l’allevamento o le coltivazioni di mais e soia – quelle che contribuiscono maggiormente alla deforestazione a livello mondiale. Perché allora puntare sempre e solo il dito sull’olio di palma?

In questi anni, l’intera filiera si è impegnata nello stabilire e far rispettare dei criteri di sostenibilità in grado di tutelare l’ambiente, la biodiversità e di garantire i diritti di chi lavora nelle piantagioni. In tale contesto, si inserisce ad esempio il Palm Oil Innovation Group (POIG), iniziativa che – partendo dai requisiti di RSPO – mira ad adottare criteri molto elevati (e comunque superiori rispetto a quelli già esistenti) a protezione delle foreste e delle comunità (http://poig.org/). Insieme ad alcuni produttori e aziende di beni di consumo, sono 9 le associazioni ambientaliste che aderiscono al POIG – tra queste Greenpeace, WWF e Rainforest Action Network. L’obiettivo è quello di promuovere pratiche di sostenibilità della filiera dell’olio di palma sempre più rigorose.

Oggi la via della certificazione appare l’unica soluzione possibile per mantenere inalterato l’ecosistema dei Paesi produttori. Questa è anche la posizione di WWF Italia che invita i consumatori a non boicottare l’olio del frutto di palma (così si favorirebbero solo oli vegetali alternativi spesso con un impatto maggiore dal punto di vista ambientale) ma a chiedere ai propri marchi di riferimento di approvvigionarsi con olio certificato sostenibile.

[1] Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione