Ci stiamo finalmente lasciando alle spalle il fenomeno del “senza olio di palma”?
A confermare il calo d’appeal del claim intervengono anche i dati dell’ultima edizione dell’Osservatorio Immagino di Nielsen GS1 Italy sui trend di consumo alimentare degli italiani, che hanno rilevato una nuova frenata rispetto al trend di crescita a due cifre degli anni passati per le vendite di prodotti “senza olio di palma”.
Nell’ultimo anno le vendite di prodotti con questo claim sono sì cresciute, con un moderato +2,8%, ma a un ritmo decisamente inferiore rispetto a quello dell’anno precedente (+7,4%), confermando la tendenza al rallentamento delle vendite. Biscotti, merendine e creme spalmabili dolci sono le categorie che hanno continuato a crescere anche nel corso del 2019, mentre crackers e pane industriale sono quelle in maggior calo.
Come si può vedere nel grafico sottostante, dal 2016 ad oggi il trend di crescita delle vendite di prodotti palm oil free è rallentato progressivamente fino ad arrivare al contenuto +2,8% del 2019. Anche la quota percentuale sul totale dei prodotti venduti è ormai stabile, sia in termini di referenze sia come % sul valore delle vendite, dimostrando che si trattava di un fenomeno passeggero, una bolla di mercato sostenuta peraltro da una forte pressione promo.
In generale, il mondo dei prodotti alimentari che dichiarano in etichetta l’assenza di almeno una componente – i cosiddetti “free from” – si trova in una condizione di stabilità: l’anno finito a giugno 2019 si è chiuso con un calo del -0,2% del giro d’affari (contro il +1,0% dell’anno precedente), confermando il trend in rallentamento delle vendite. Ciò non toglie che l’universo dei prodotti “senza” valga quasi il 27% delle vendite di iper e supermercati, per un valore assoluto che sfiora i 7 miliardi di euro.
Nonostante questi risultati riflettano una maggiore consapevolezza e capacità critica dei consumatori nel leggere le etichette dei prodotti alimentari, c’è ancora molto lavoro da fare.
Da un’indagine condotta dalla professoressa Guendalina Graffigna, direttore del Centro di ricerca Engage Minds Hub dell’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore, Campus di Cremona, è emerso che più della metà degli italiani (58%) dichiara di aver creduto almeno una volta nell’ultimo anno a una notizia letta su Internet relativa al mondo agroalimentare che poi si è rivelata essere una fake news. Non solo: tra questi, addirittura un terzo (37%) ha anche condiviso la notizia falsa sui social, contribuendo così all’inarrestabile diffusione delle bufale alimentari.
Dalla ricerca è emerso che le fake news non risparmiano nessuna classe sociale e in media sono le persone con almeno un diploma e una fascia economica media a essere più spesso vittime delle fake news alimentari. Come ha sottolineato la professoressa Graffigna, il problema è che le fake news alimentari comportano spesso effetti negativi sulla salute dei consumatori che ne sono preda. In particolare i cibi ‘senza’ o ‘con aggiunta di’ tendono a essere preferiti e considerati più salutari, indipendentemente dalle effettive proprietà nutrizionali.
Il tema ‘caldo’ di questa ultima edizione dell’Osservatorio Immagino è la sempre maggiore presenza sugli scaffali di prodotti claim sostenibili: 19mila referenze per un valore complessivo che, nell’anno terminato a giugno 2019, ha sfiorato i 7 miliardi di euro di sell-out, con un incremento del +3,4% rispetto ai 12 mesi precedenti.
In particolare, si conferma la crescita delle vendite di prodotti con certificazione CSR, il cui giro d’affari supera il 10% e cresce del 2,1%, in linea con la maggiore attenzione dei consumatori al tema sostenibilità.
Rientrano in questa categoria i prodotti che in etichetta riportano loghi o immagini riconducibili a vari tipi di attestazioni e certificazioni che forniscono assicurazioni circa la sostenibilità ambientale e sociale delle materie prime e dei processi utilizzati.
Peccato che in Italia, come nel resto del mondo, sia ancora poco diffuso il ricorso a segni identificativi dell’impiego di olio di palma proveniente da filiere certificate come sostenibili, soprattutto a causa delle campagne denigratorie in atto e di una scarsa awareness da parte dei consumatori, che non ne incentivano certo il ricorso, persino da parte delle aziende che possono già vantare una supply chain certificata.