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23/08/2021

Land grabbing e olio di palma sostenibile: facciamo chiarezza

È stato presentato recentemente al Senato il quarto rapporto sul fenomeno del land grabbing, elaborato dalla Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (Focsiv). L’indagine denuncia un crescente aumento degli ettari (93 milioni stando ai rilevamenti) “strappati alle popolazioni locali e ai Paesi e consegnati a un sistema estrattivista che sta portando il nostro Pianeta a un punto di non ritorno”. I principali usi della terra riguardano infatti l’estrazione mineraria per oltre 25 milioni di ettari, lo sfruttamento delle foreste per 18 milioni di ettari, e le piantagioni per 8,5 milioni di ettari. Seguono poi distanziate le colture alimentari per 5,6 milioni di ettari.

Non è certo nostra intenzione mettere in discussione il risultato di un lavoro tanto lungo e dettagliato. Tuttavia, spiace osservare come nell’approccio si sia conservato un rigore ideologico che, a nostro avviso, rischia di essere frainteso e controproducente.

Va detto, innanzitutto, che il fenomeno del land grabbing assume sul territorio diverse sfaccettature delle quali non sempre si tiene conto. E’ pacifico che alle popolazioni locali interessate, a fronte della perdita di servizi ecosistemici, debbano essere assicurate adeguate tutele e compensazioni quali benefici socio-economici e condizioni di lavoro dignitose nonché il rispetto dei diritti fondiari, passando dunque imprescindibilmente dal “consenso preventivo libero e informato”  delle comunità indigene. D’altro canto va sottolineato che, qualora vi sia la carenza o l’assenza di tali meccanismi, può concretizzarsi il rischio che le popolazioni locali vedano lesi i propri diritti, perdendo potere di controllo e di accesso sulla terra e sulle risorse e servizi collegate ai suoli.

Tuttavia, ci chiediamo se questo rischio legittimi le opzioni più intransigenti e una visione retrotopica. Agricoltura a chilometro zero, rallentamento della marcia, fino a decrescita dello sviluppo, precludendo qualsiasi alternativa, rappresentano davvero la soluzione al land grabbing ? Nell’ottica generalista di “muoia Sansone con tutti i filistei”, non c’è spazio per il dialogo. Non emergono le sfumature che potrebbero favorire un una conciliazione e indicare la corretta via per lo sviluppo sostenibile ed il progresso.

Ammesso e non concesso che i mercati più avanzati del mondo siano divenuti tali solo a spese delle società meno arretrate, vien da chiedersi la razionalità della strategia per cui, per sconfiggere la povertà, si debba annientare la ricchezza. Idea peraltro già accarezzata in passato da molte rivoluzioni e che si è dimostrata fallace.

Non sta certo a noi dire che la decrescita felice appartenga al libro dei sogni. Ciò che, al contrario, ci preme sottolineare è la terza via, che si insiste a non voler imboccare. Nessuno nega l’eccessivo sfruttamento del suolo. Forse però andrebbe ricordato non solo che con circa 7,6 miliardi di abitanti – destinati a diventare 10 entro i prossimi trent’anni – la pressione sulle risorse naturali risulta inevitabile ma anche che, nonostante questo boost demografico, il mondo di ieri era certamente peggiore.

I sistemi di certificazione sono uno strumento efficace per promuovere lo sviluppo sostenibile e rassicurare il consumatore in merito alla sostenibilità ambientale, economica e sociale del prodotto che sta acquistando.

Parlando di olio di palma e SDGs, va ricordato in particolare come la Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO) riunisca quei produttori nelle cui piantagioni certificate sono garantite condizioni di lavoro e salariali migliori rispetto a quelle convenzionali e che garantiscono benessere e opportunità di crescita e impatti socio-economici positivi sulle comunità locali, nel pieno rispetto dei diritti delle popolazioni indigene, tutelandole anche dal “land grabbing”.

Nel corso degli anni, la filiera dell’olio di palma si è dotata di schemi di certificazione molto avanzati e sempre più stringenti, elaborati con il contributo ed il coinvolgimento diretto delle organizzazioni della società civile, proprio per dare voce alle comunità locali e agli smallholder, per offrire un prodotto sicuro e di qualità nel rispetto dell’ambiente e delle persone.

Questo ci pone di fronte a una questione morale negli acquisti di tutti i giorni. Nella sua libera scelta, ma dotato delle informazioni adeguate e trasparenti, il consumatore può stabile cosa è giusto comprare e cosa invece è dannoso per chi lo produce a decine di migliaia di chilometri di distanza. Le certificazioni sono il riconoscimento di strategie di sostenibilità, implementate da operatori che hanno ben chiari gli obiettivi di sviluppo sostenibile e si adoperano per dare il loro contributo al raggiungimento degli SDGs da parte dei paesi e le comunità in cui sono attive con la loro catena del valore, consentendo ai consumatori di operare scelte più responsabili. Anche in virtù di un principio fondamentale ma spesso dimenticato: per un’impresa – di qualunque settore e dimensione – è sempre preferibile confrontarsi con una forza lavoro ben remunerata, preparata, in salute e quindi incentivata a migliorare, piuttosto che gestire conflitti con dipendenti e comunità locali.

Quella di Robin Hood è una bella storia d’altri tempi. La strategia da seguire per condurre la popolazione mondiale in crescita lungo la via dello sviluppo sostenibile e del progresso dovrebbe fondarsi sul rispetto del pianeta e dei diritti umani e del benessere delle comunità locali e su adeguati criteri di inclusione, proprio come avviene nella filiera dell’olio di palma certificato sostenibile, dove le principali organizzazioni della società civile sono in prima linea nel processo di definizione e revisione degli standard e delle linee guida di RSPO e nella risoluzione delle controversie.

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