La filiera dell’olio di palma sostenibile rappresenta per milioni di persone un’opportunità per una vita migliore e sta fornendo un contributo importante al raggiungimento dei Sustainable Development Goals (SDGs), gli obiettivi di sviluppo sostenibile sottoscritti nel settembre del 2015 dalle Nazioni Unite per promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente.
Questo processo è stato riconosciuto anche da diverse organizzazioni e istituzioni internazionali, fra cui le Nazioni Unite e la FAO. Proprio l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura è impegnata in questo momento, insieme a COOPI (Cooperazione Internazionale), in un progetto di sicurezza alimentare nella Repubblica Centroafricana che prevede la fornitura di infrastrutture per la coltivazione di olio di palma, la creazione di un palmeto e una formazione pratica e teorica per 500 giovani del posto (leggi qui).
L’importanza dell’industria dell’olio di palma per lo sviluppo delle economie in difficoltà è esemplificata dal caso della Malesia e dell’Indonesia, i due principali paesi produttori, per i quali questa coltura rappresenta un fattore chiave di sviluppo, assicurando lavoro e sussistenza economica a milioni di persone che hanno visto migliorare le loro condizioni di vita e le loro prospettive. Il contributo significativo del settore al PIL di questi due paesi, rispettivamente dell’1,5%-2,5% e del 5%-6%, dimostra come l’olio di palma dia una forte spinta alla crescita economica.
Sull’importanza degli aspetti etici ed economici legati alla produzione di olio di palma è stato recentemente pubblicato un interessante studio The Moral Minefield of Ethical Oil Palm and Sustainable Development, di Eric Meijaard e Douglas Sheil che invita a riflettere su un punto importante: la vera sfida è quella di ridurre l’impatto delle attività umane sull’ambiente, ma cercando di raggiungere il perfetto equilibrio tra natura ed essere umano.
Nel corso della sua missione in Europa, lo scorso 10 maggio, Teresa Kok Suh Sim – il Ministro dell’Industria Primaria malese – ha incontrato, tra gli altri, a Roma il Sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale, Manlio Di Stefano, a cui ha illustrato la strategia nazionale di protezione delle foreste e il sistema di certificazione nazionale di sostenibilità dell’olio di palma.
L’intenzione del Ministro è quella di portare all’attenzione internazionale gli sforzi fatti dalla Malesia negli ultimi anni, i quali purtroppo devono fare i conti con disinformazione, interessi di marketing e fake news. Le argomentazioni che spingono al boicottaggio dell’olio di palma non riguardano solo i presunti effetti nocivi sulla salute, ma anche la deforestazione e gli effetti sull’ambiente.
Su questo fronte, Teresa Kok ha ricordato che “Nel 1992 l’area forestale del nostro paese era il 56,2 per cento”, ha dichiarato, “vent’anni dopo abbiamo ancora il 54,8 per cento di foresta, anche se la popolazione è cresciuta da 19,2 a 31,7 milioni. La deforestazione c’è stata, ma solo dello 0,1 per cento”.
L’accusa di deforestazione incontrollata riguarda anche l’Indonesia, primo paese produttore di olio di palma. Ma le cose stanno cambiando.
In realtà, secondo gli ultimi dati pubblicati da Global Forest Watch (GFW) (vedi qui) la situazione è in netto miglioramento: la perdita di foresta è scesa al livello più basso dal 2003, continuando il calo promettente iniziato nel 2016. Negli ultimi 3 anni la quantità di terreno perso per deforestazione in Indonesia è scesa di circa il 66%. Solo nell’ultimo anno, la perdita di foresta è stata inferiore del 40% rispetto al tasso medio annuo di perdite nel registrato tra il 2002 e il 2016. Questo è un segnale importante che dimostra che gli impegni assunti dal governo, dalle autorità locali e dagli operatori stanno dando i loro frutti e ci si sta muovendo verso la giusta direzione.
Circa il 40% della produzione mondiale di olio di palma è rappresentata dai piccoli produttori, i quali spesso non hanno le risorse e il know-how sufficienti. È necessario dunque sostenerli, non boicottarli, per fare il modo che diventino più efficienti e aumentino la loro produttività in modo sostenibile.
L’impegno dei governi dei paesi produttori del sud-est Asiatico e non solo, e i risultati positivi raggiunti meritano di essere riconosciuti e apprezzati, non screditati o ignorati.
Dello stesso parere il Dr. Tommaso Chiti, Ricercatore presso l’Universita della Tuscia (Viterbo) specializzato in Pedologia e Scienza del Suolo, con competenze di campo e di laboratorio per l’investigazione delle dinamiche del carbonio del suolo, che ha partecipato lo scorso novembre alla seconda edizione del “Regular Oil Palm Course” (ROPC) (leggi qui) Si tratta di un’iniziativa molto interessante organizzata dal ministero per gli affari esteri Indonesiani in collaborazione con il Oil Palm Plantation Fund Management Agency (BPDP-KS), il Bogor Institute of Agriculture e l’Università di Jambi.
“Ho avuto la fortuna di prendere parte a questa esperienza e di conoscere le diverse realtà, statali e private, che costituiscono l’industria dell’olio di palma in Indonesia”, commenta Tommaso Chiti. “Gli standard che caratterizzano le aziende variano da medio-bassi a molto elevati. Abbiamo visitato un’azienda privata che aveva standard elevatissimi sia a livello ambientale che sociale. Quello che si nota è, in generale, una forte volontà da parte del governo Indonesiano di invertire il clima di terrore generato attorno alla produzione di olio di palma, imboccando la via della sostenibilità. La strada intrapresa sembra essere quella giusta”.
L’utilizzo ingannevole delle etichette “senza olio di palma” e le campagne di boicottaggio rischiano di vanificare tutti gli sforzi compiuti e frenare lo sviluppo sostenibile. Il boicottaggio non è la soluzione, occorre promuovere e sostenere una catena di approvvigionamento al 100% sostenibile.