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30/04/2020

Perchè l’olio di palma sostenibile può salvare gli oranghi – Michelle Desilets, OLT

Gli oranghi sono il simbolo delle numerose campagne di sensibilizzazione portate avanti dalle organizzazioni ambientaliste che individuano nell’olio di palma la principale causa di estinzione di questa specie delle foreste del Borneo malese ed Indonesiano. Una tra le principali critiche mosse all’espansione delle piantagioni di palma da olio è proprio quella di essere causa di deforestazione e conseguentemente di essere una minaccia per la biodiversità degli ecosistemi tropicali.

Per fare chiarezza su questo tema, abbiamo intervistato il Direttore esecutivo dell’Orangutan Land Trust, associazione britannica con l’obiettivo di fornire soluzioni sostenibili per la sopravvivenza degli oranghi in natura. Michelle Desilets – esperta che lavora da oltre 25 anni in questo campo – ci ha raccontato il suo impegno per la conservazione degli oranghi e la sua collaborazione attiva con gli stakeholder.

Oranghi

Prima parte:

Signora Desilets, lei è la fondatrice dell’Orangutan Land Trust, un’organizzazione dedita a sostenere la conservazione, il recupero e la tutela delle foreste nelle aree che sono, o sono state in passato, l’habitat naturale degli oranghi. Può dirci quali sono i vostri principali obiettivi?

La mission dell’Orangutan Land Trust è quella di fornire soluzioni sostenibili per la sopravvivenza a lungo termine degli oranghi in natura. L’obiettivo principale è la conservazione delle zone rimanenti del loro habitat, unito al recupero di zone degradate, laddove possibile, per aumentare le possibilità di sopravvivenza della specie.

Quali sono, allo stato attuale, i rischi e le minacce principali per questi animali? 

Le principali minacce per gli oranghi sono la perdita dell’habitat e la caccia e l’abbattimento diretto. Sulla prima minaccia si pone molto l’accento, mentre la seconda passa più in sordina.

In Italia i mezzi di comunicazione e i social media lanciano spesso messaggi come questo: “Ogni giorno 25 oranghi muoiono a causa dello sviluppo delle piantagioni di palma da olio”. Crede che siano cifre attendibili?

Sappiamo che ogni anno tra i 3000 e i 5000 oranghi muoiono per cause non naturali, e soprattutto per i due motivi a cui accennavo. Ma la perdita dell’habitat non deriva unicamente dalla conversione della foresta per la coltivazione della palma da olio: non dobbiamo dimenticare le altre colture, gli incendi (accidentali e dolosi) e l’attività mineraria, per esempio. Perciò, sebbene la conversione delle foreste finalizzata alla produzione dell’olio di palma costituisca una grave minaccia per la sopravvivenza degli oranghi, queste cifre sono abbondantemente gonfiate.

In Italia il pubblico è esposto in genere a una narrativa anti-palma basata su cliché e stereotipi. Per esempio, in un programma tv si è detto di recente che “quest’anno in tutta l’isola [del Borneo] per far spazio a nuove piantagioni di palme sono stati divorati dalle fiamme di incendi volontari circa 858.000 ettari di foreste”. È così?

Quello che mi sta dicendo è sconfortante. I mezzi di informazione e gli stakeholder dovrebbero rivolgersi a esperti riconosciuti sulla scena internazionale, tra cui le ONG come noi, attive su questo fronte, e gli scienziati o gli esperti di conservazione della natura provenienti dalle regioni interessate dal problema, o anche da altre zone del mondo. Per esempio, la IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) ha istituito una task force dedicata all’olio di palma. Il suo rapporto “Palm Oil and Biodiversity” raccoglie una mole di dati sul tema forniti in modo indipendente da scienziati di prim’ordine. Quanto alla frase che ha citato sugli incendi, contiene così tanti errori che non saprei nemmeno da dove iniziare. Prima di tutto, la supposizione che quegli incendi fossero dolosi non corrisponde al vero. Senz’altro alcuni lo erano, ma molti altri sono stati accidentali e alimentati dalle condizioni meteorologiche, come il vento la siccità. Dimostrare quali incendi siano stati volontari e quali no è estremamente difficile, A proposito dell’area bruciata, la maggior parte di essa non era occupata da foresta. Quindi affermare che gli incendi sono stati tutti appiccati per togliere foreste e fare spazio a nuove piantagioni è sbagliato senza ombra di dubbio.

Esempi di disinformazione come questo non contribuiscono a trovare soluzioni. Sarebbe più efficace attenersi alla realtà dei fatti, ovvero: l’olio di palma convenzionale ha effettivamente un impatto catastrofico sulle foreste e la biodiversità, e gli incendi, in parte causati da piromani per fare spazio alla coltivazione della palma da olio, sono stati effettivamente definiti nel 2015 come il più grave disastro compiuto dalla mano dell’uomo nel XXI secolo. È questo che bisogna dire, ma raccontando anche cosa si sta facendo o si potrebbe fare per contrastare questi effetti.

Sono diverse le iniziative nate per risolvere questi problemi e diffondere pratiche sostenibili nella produzione dell’olio di palma. Pensiamo, ad esempio alla costituzione della Roundtable on Sustainable Palm Oil. L’Orangutan Land Trust è un’organizzazione molto attiva all’interno della RSPO tramite collaborazioni volontarie con diversi gruppi di lavoro, ed è anche membro del POIG – Palm Oil Innovation Group. Avete fondato la PONGO (Palm Oil and NGO) Alliance e siete anche tra i promotori della piattaforma Sustainable Palm Oil Choice (SPOC). Come si concilia l’impegno sul fronte dell’olio di palma sostenibile con l’obiettivo di salvaguardia degli oranghi?

Come anticipavo, la conversione dell’habitat forestale per la produzione di olio di palma rappresenta una grave minaccia per questi animali, la cui popolazione vive per gran parte al di fuori delle aree protette: solo in Borneo, sono stati censiti diecimila oranghi in zone allocate alla coltivazione industriale della palma da olio. In questi paesaggi frammentati, gli oranghi sono esposti a rischi seri, soprattutto con l’aumento della domanda di olio di palma. Sarebbe impossibile per ragioni logistiche e finanziarie, oltre che contrario all’etica, trasferire tutti gli oranghi presenti in queste zone nei centri di recupero, strutture già allo stremo in quanto accolgono gli animali che sarebbero andati incontro a morte certa per la mancanza di cibo o a causa del conflitto tra uomo e fauna selvatica. Bisogna trovare soluzioni attuabili nei luoghi in cui si trovano ora questi animali. La soluzione più incisiva e di più ampio respiro è garantire la sostenibilità nella produzione dell’olio di palma. Tanto i Principi e Criteri RSPO quanto la Carta del POIG vietano la deforestazione e obbligano alla tutela o al potenziamento delle aree ad alto valore di conservazione, come quelle dove vivono specie rare, minacciate o in pericolo, tra cui gli oranghi. La RSPO proibisce inoltre la cattura e l’abbattimento di specie rare, minacciate o in pericolo, così come di recar loro qualsiasi danno.

Perché l’OLT non approva il boicottaggio dell’olio di palma?

Il nostro obiettivo è che l’intera produzione di olio di palma diventi sostenibile, e per questo motivo rifiutiamo un boicottaggio a tappeto che non operi una distinzione tra olio di palma convenzionale e sostenibile. Dello stesso avviso, per tante ragioni, sono anche la maggior parte delle ONG e degli ambientalisti, scienziati e altri esperti impegnati in questa battaglia. In sintesi:

Il boicottaggio è irrealizzabile. L’olio di palma si trova in circa la metà dei prodotti confezionati presenti nei supermercati e nei prodotti per la cura della persona. Se volessimo controllare gli ingredienti di ogni articolo che acquistiamo, per fare la spesa settimanale impiegheremmo delle ore. Oltretutto, dall’olio di palma si ricavano centinaia di derivati che figurano in etichetta con i nomi scientifici, spesso complicati. Persino io non sono ancora riuscita a impararli tutti!

Considerando invece gli aspetti sociali, il boicottaggio è contrario all’etica. Il sostentamento di milioni di persone dipende direttamente dall’olio di palma e altri milioni di persone ne dipendono indirettamente. Nei paesi in via di sviluppo la povertà è diffusa, ed è inconcepibile smantellare un intero settore togliendo il lavoro a milioni di persone.

Il boicottaggio risulterebbe punitivo per le aziende che operano bene e disincentiverebbe le altre a seguire la stessa strada. Si arresterebbe così la trasformazione sostenibile del settore.

Un boicottaggio di proporzioni significative sarebbe controproducente. La palma da olio è la coltura da olio con la resa maggiore: sostituirla con altre aumenterebbe il fabbisogno di terreni e quindi non si farebbe che spostare il problema altrove. Peggio ancora, se il boicottaggio portasse al collasso del settore, le nazioni tropicali produttrici di olio di palma, come Malesia e Indonesia, inizierebbero a dedicarsi ad altre coltivazioni che offrono una resa inferiore, con un conseguente aumento della pressione sulle zone restanti di foresta pluviale e sulla biodiversità.

 

Continua…